The six stages of grief

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    ETA 33 YO | Tiratore Scelto | Inamovibile, Talento Marzialità

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    In quella giornata così normale rispetto alle altre Artorius aveva deciso di continuare una cosa morta da tempo.
    Morta, si, ma non sepolta.
    Non era mai stata sepolta e non era mia stata neanche coperta.
    Non era davvero possibile coprire una cosa del genere.
    Non l’avevano neanche potuta coprire le autorità babbane data la sua portata, semplicemente dopo un po’ di tempo la gente se ne era semplicemente dimenticata.
    Ma dimenticare non era materia degli elefanti e di quelle persone che dentro avevano qualcosa di rotto.
    Era il mestiere che ti spezzava, e a volte capitava quando queste accadevano queste situazioni, lasciavano qualcosa, un’orma, una vera impronta nell’anima.
    Non era che gli piacesse soffrire, ma non riusciva a dormire al pensiero di aver potuto sbagliare qualcosa o di aver lasciato da qualche parte un dettaglio.
    Fu così che quella mattina si era alzato presto e si era diretto in uno dei posti più dimenticati dell’intero ministero della magia: L’Archivio.
    Era uno di quei luoghi dove nessuno voleva stare e dove le cose venivano anche forse dimenticate.
    Non sarebbe stato solo però in quell’impresa, e questo gli dava un po’ di spinta a cercare ancora.
    Mentre dalla camera si dirigeva in cucina lo stomaco gli si chiuse un pochino e per lui che si sarebbe mangiato anche un bue alla mattina non era un bel segno.
    Emozioni tramite lo stomaco, e non era la prima volta che capitava.
    Si lasciò andare ad uno sbuffo, ma si preparò ugualmente il pasto e mentre guardava con un pelo di disgusto l’avena nella tazza si fece forza e la mandò giù.
    Poggiò infine, dopo una decina di minuti la stoviglia nel lavello e andò a cambiarsi.
    Uscì di casa e fece quattro passi verso il centro del paese.
    Una mattina soleggiata, proprio invece a contrasto di quel suo umore un po’ spento in quel giorno di rimembranza che non gli avrebbero permesso di essere del suo solito umore gentile e quantomeno pacato.
    Salutò con garbo le persone che incrociò in quel quarto d’ora a piedi che lo separavano dalla stazione della metro-polvere.
    Arrivatovi la utilizzò e in qualche nauseabondo istante si ritrovò subito all’interno del grande salone centrale del ministero e si diresse agli ascensori.
    Entrò in uno di questi e riconobbe l’impiegato.
    «Buongiorno George, archivio per cortesia»
    L’uomo lo vide e subito disse
    «buongiorno sig. Parker, ma certo, andiamo subito»
    Non perse tempo in altri convenevoli e l’ascensore si mosse subito verso la destinazione.
    Suonò il campanello e le porte si aprirono mentre le torce esterne illuminavano il corridoio che da lì a cinque metri finiva in una porta color arancio sporco con scritto in nero la destinazione da lui scelta.
    Ormai sapeva cosa cercare e dove cercare, entrò con discrezione e vide una delle impiegate che gestivano il posto guardarlo con circospezione.
    Non molte persone dovevano fare visita e quantomeno parlare con quelle vecchie, in alcuni casi, megere.
    «Il materiale del caso Canon per piacere» domandò con vece calma e cordiale.
    «Certamente detective Parker, come ogni anno.» rispose la donna al bancone.
    «Si signora» rispose serio, agitato, ma fermo.
    Era davvero così come diceva l’impiegata, una volta l’anno.
    Era stato ai tempi in cui era ancora una recluta, quasi 5 anni fa.
    Aveva passato velocemente i test per la squadra dei tiratori scelti e dato il suo background militare aveva fatto presto.
    Ma nonostante tutto quello che aveva visto in guerra, nulla lo aveva preparato a quello spettacolo. E non lo era ancora adesso dopo tanto tempo.
    Si diresse poi verso uno dei tavoli in fondo alla zona dipendenti, si sedette e aspettò.
    La scatola arrivò galleggiando a circa un metro da terra e si poggiò sul tavolo.
    Artorius la aprì mentre le mani gli iniziavano a sudare come ogni volta.
    Tirò fuori fascicolo per fascicolo e li pose in linea.
    Ogni volta in un ordine differente, proprio per comprendere se gli fosse sfuggito qualcosa in tutto quel tempo.
    Quello che però non cambiavano erano i fascicoli con le grandi foto generali.
    Insieme e quelle fatte dai loro fotografi c’erano quelle più statiche fatte dai babbani.
    Nemmeno loro avevano trovato molto di più dei vari incanti lanciati da loro.
    C’era solo sangue. Sangue che veniva diretto dai lati verso il centro della stanza.
    Proveniva da punti precisi, e per ancora maggiore precisione da delle mani.
    Otto punti, otto mani.
    Per essere quasi autistici erano quattro coppie.
    Formavano quasi un sole od una rosa dei venti con un cerchio al centro, e li proprio in mostra un corpo nudo. Un corpo senza mani, e la cui testa era sulla schiena, rivolta verso la porta.
    Simboli disegnati sul resto del corpo.
    Il corpo era di donna, ma le mani non erano solo femminili o di adulti.
    E allora sorgeva spontaneo chiedersi dove fosse tutto il resto.
    Nulla poteva scomparire così.
    Continuava a rivedere la scena nella sua testa, forse creandosi anche dei bias cognitivi non da poco.
    Eppure le viscere si stringevano ogni volta alla stessa maniera e le mani sudavano e lui stesso iniziava a stare male.
    La morte permeava quella casa, tanto che nessuno l’avrebbe mai più abitata, o almeno era quello che aveva saputo.
    Dopo quel momento di riflessione riprese a scavare.
    Evoco con un gesto rapido della bacchetta due lavagne. Su quella di sinistra mise le foto e su quella di destra i documenti che iniziava a ritenere importanti.
    Prese la sedia e si alzò, la spostò indietro ed iniziò a guardare ancora.
    Ed ecco lì un altro bias, forse guardava troppo e non si fidava di quello che gli dicevano le viscere.
    Sapeva, come tutti, che erano tutti morti, ma perché fare una cosa del genere.
    Non voleva tirare conclusioni affrettate e sistemò di nuovo tutta la roba in ordine nei vari fascicoli e si fermò.
    Rimase ancora lì, seduto distante da quella scatola e da tutto quel materiale, si passò le mani tra i capelli e tirando fuori il taccuino dedicato lo guardò.
    Cos’era rimasto da fare? pensò.
    Aveva controllato tutti gli anni fino al 1970 e nulla di quello che aveva trovato sembrava avere dei legami, se non forse uno del 1969.
    Sarebbe dovuto andare a cercare il numero del caso e chiedere all’impiegata di portarglielo.
    Nessuna persona … e a quel pensiero si fermò ancora, no, non doveva paragonarlo ad una persona normale, non lo era e non lo meritava; c’era però l’idea nella testa di Artorius che non fosse il primo e che forse non era l’ultimo.
    Della pratica doveva essere fatta prima di passare a quello stile e a quella precisione.
    Dovevano esserci dei precedenti, avrebbe solo dovuto trovarli.
    Li avrebbe trovati.



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    Giadì

     
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    Il turno di notte le piaceva; stare da sola con i propri pensieri, poteva sembrare una grande condanna, ma Jessica col tempo aveva imparato ad apprezzare quel tempo regalatole per capire e per capirsi, tanto da arrivare ad essere totalmente in pace con se stessa.
    Durante gli anni intercorsi dai suoi quindici alla data odierna, avrebbe voluto avere molte più occasioni per mettersi a confronto con il suo “io” più profondo ed arrivare prima a comprendere come la sua bellezza non fosse appassita dopo i terribili incidenti che l’avevano vista protagonista, in particolar modo quello avvenuto nella foresta brasiliana.
    Era riuscita, comunque, a venire a patti con la sua condizione, anche se ci era voluto tempo, dedizione ed anche una buona dose di sofferenza, che non può mai mancare.
    Quella notte in particolare, aveva ripassato mentalmente tutto ciò che aveva vissuto in passato, chiedendosi cosa e dove avesse sbagliato, esaminando ogni suo passo ed ogni sua mossa, anche se mancavano dei tasselli fondamentali.
    Sospirò, percorrendo il lungo corridoio che l’avrebbe portata fuori da quel posto così buio e quasi mai allegro: il Ministero. Era stato un turno piatto e, forse anche per quello, privo della sua amata dinamicità.
    Stava effettivamente per lasciarsi alle spalle una notte durante la quale aveva soprattutto compilato scartoffie ed imparato un sacco di dati che non le sarebbero mai tornati utili, quando un piccolo fascio verde proveniente da uno dei camini, catturò la sua già labile attenzione. Era troppo presto perché iniziasse il flusso quotidiano di impiegati e troppo tardi perché qualche dirigente decidesse di presentarsi al lavoro, quindi rimase ad aspettare finché la nube verdognola non si dissolse del tutto.
    Nonostante la scarsa illuminazione, riconobbe all’istante Artorius Parker. Lo riconobbe per due semplici ragioni: negli ultimi cinque anni, puntuale come un orologio, esattamente quel giorno si presentava al Ministero, sia perché ricordava di aver trattato uno dei casi più raccapriccianti della sua carriera e c’era anche lui, proprio cinque esatti anni prima.
    Quindi, incapace di mettere a freno la sua curiosità, decise di seguirlo. Scivolò come un fantasma tra le ombre dell’atrio, fino all’ascensore affianco a quello dov’era salito l’uomo. Sapeva esattamente dove stesse andando.
    «Archivio, per favore» Domandò alla donna, lì in piedi con l’unico scopo di portare i ministeriali ovunque avessero voglia, proprio come stava chiedendo lei ora. Era una donna obbediente e molto silenziosa, infatti rispose con un semplice cenno del capo, prima di portarla più o meno al centro della terra.
    Non le era mai piaciuto scendere laggiù e, se poteva, era la prima ad evitarlo, delegando il compito a qualche collega più giovane, ma stavolta non poteva lasciare nelle mani di nessuno la possibilità di soddisfare la sua curiosità. Forse era anche una scusa per non tornare a casa, per qualche strano motivo che non era chiaro nemmeno a lei.
    Posò lo sguardo color opale sulle torce che illuminavano malamente il corto corridoio. Ed in quel momento la sua convinzione che il progresso fosse un bene, si rafforzò. Insomma… sarebbe stato tutto meno inquietante se ci fosse stata la luce elettrica, al posto di bastoni infuocati. Comunque, con una scrollata di spalle si avviò fino a raggiungere la porta scrostata e semichiusa, senza nemmeno fermarsi a leggere il cartello arancione: sapeva dove fosse, non aveva bisogno di conferme.
    Posò i polpastrelli sul legno e la spinse quel tanto che bastava per sgusciarvi dentro, attirandosi lo sguardo incuriosito di un paio di vecchiette, impegnate a scartabellare qualche nuovo fascicolo che doveva essere arrivato quella notte. Era cosa nota che non le piacesse scendere nei meandri dell’inferno.
    Si avvicinò al collega con passo felpato, osservandolo in tutta la sua possenza. Era un uomo affascinante e Jessica non ne aveva mai fatto segreto. L’uomo era seduto, quindi riuscì a vedere oltre la sua spalla. Come sospettava, era esattamente quello specifico caso che stava esaminando. Ricordava il rosso come padrone della scena. Era un’auror da più di cinque anni, eppure nulla aveva eguagliato mai quello spettacolo raccapricciante, non adatto ai deboli di stomaco. Ma sicuramente adatto ai vampiri.
    Ricordava perfettamente come lo aveva definito lei stessa a mezzavoce, così tanto tempo prima: un rituale. Sì perché era proprio quello che sembrava, con quel sangue forse volutamente indirizzato dalle mani ai lati, al corpo al centro. Metteva i brividi tutt’ora.
    «Ancora quel caso?» Posando una mano sulla spalla dell’uomo come gesto comprensivo. Non lo aveva mai approcciato in quei cinque anni che si era presentato lì, ma non aveva nulla da perderci. Molti avrebbero potuto infastidirsi o quantomeno stupirsi della confidenza che Jessica si concedeva con chiunque, anche con persone più grandi di lei… ma se già dai tempi scolari le importava poco, dopo sette anni come auror, aveva capito che erano altre le priorità della vita e che essa era troppo breve per perdersi in inutili formalità, soprattutto con i colleghi.
    «Proprio non ti arrendi, eh?» Chiese, aggirandolo e cadendo a sedere affianco a lui, osservando più da vicino quei raccapriccianti fascicoli.

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    Era immerso nel dossier Artorius, immerso così profondamente che sembrava quasi essere sul punto di usare un pensatoio.
    Quel caso rappresentava anche un rantolio di emozioni mai messe a tacere e un sottofondo di voce che non si assopiva mai, al massimo veniva escluso dal cervello, eppure, laggiù nell’angolo dell’occhio, nel riflesso strano dello specchio e nel macinare della mente rimaneva là, inamovibile.
    Le foto che si muovevano e i documenti fermi creavano un contrasto diverso, quasi uno stallo temporale, un cerchio che non si era ancora spezzato, il cui punto debole non era ancora stato scoperto. La parte peggiore di tutto quel sistema era il silenzio.
    Non era solo il silenzio delle vittime che dopo un po’ di tempo iniziava a dargli i pensieri, ma anche che tutto quel materiale non dicesse davvero nulla di concreto; avesse fumato si sarebbe sicuramente acceso una sigaretta, stiracchiato la schiena e visto le cose in una nebbia ancora peggiore di quella che già c’era nella stanza.
    Fortunatamente la parte dedicata all’osservazione dei fascicoli e delle prove era sicuramente meglio illuminata del resto della strada che portava lì e del posto in generale, ma ci sarebbe voluta della luce elettrica per vederci davvero bene.
    Un po’ gli mancava questa comodità del mondo babbano.
    Fu preso alla sprovvista quando si sentì una mano sulla spalla e una voce di donna che parlava.
    Il cuore gli sussultò e scattò sulla sedia, si girò nella direzione della voce e della mano e vide una figura familiare del ministero ma con la quale non aveva mai interagito. Il respiro pesante e leggermente affannoso potevano rivelare all’altra persona di essersi davvero preso uno spavento.
    «Auror Whitemore, mi ha preso alla sprovvista. » disse con voce affannosa e un pelo più cavernosa del solito. «Si è ancora quel caso, non riesco a levarlo dallo sfondo della mia testa.»
    Aveva ripreso la sua domanda e risposto con quella che forse era un’ovvietà. Lo sguardo di Artorius era rimasto comunque serio e pensieroso, forse segni troppo evidenti del peso che quel caso aveva portato.
    Si ricompose sulla sedia mentre arrivò una seconda domanda a bruciapelo. Si sapeva che l’Auror Whitemore era così, diretta schietta e precisa come una punta di freccia. E nel mentre la pronunciava la vide sedersi e guardare i fascicoli. Li conosceva bene anche lei, c’era quella maledetta sera, era anche lei sulla scena di quel rituale.
    Continuò ad osservarla mentre le rispondeva «No signora, non posso.» sembrava quasi riprendere le stesse parole di prima, ma non ci riuscì. La sua voce si fermò momentaneamente li mentre pensava a quello che aveva davanti. Ostinazione e caparbietà, due tratti strani che in Artorius si manifestavano in modo strano e che in un buon soldato potevano essere armi a doppio taglio, ma quando c’erano queste situazioni in grado di penetrarti nell’animo era difficile tenerle a bada.
    Per sua natura il tiratore non riusciva a dare del tu a persone che secondo lui, o secondo uno schema organizzativo erano suoi superiori, ed in quel caso l’auror in questione era una delle migliori della scena del ministero in quel momento.
    Si rese conto in quel momento che o era passato un’infinità di tempo, cosa che il suo orologio interiore gli avrebbe fatto notare, oppure, l’auror era lì per qualche altro motivo, ma la sua testa non riuscì nell’immediato a darsi una spiegazione e per mera curiosità le domandò
    «Cosa fa qui a quest’ora Signora? Anche lei è in mezzo alle scartoffie di un caso? »
    Fu forse la prima cosa sensata che gli venne in mente sul perché quella donna potesse essere lì in archivio in una notte che dopo ancora poco tempo sarebbe cambiata in un turno di mattina. Francamente l’animo non era dei migliori e in quel momento non si riteneva di poter essere estremamente di compagnia.
    Si allungò sul piccolo mobiletto a rotelle sulla sinistra e si versò una tazza di thè caldo, e mentre lo faceva chiese «Vuole del thè? Purtroppo non bevo caffè.»
    Aspettava una risposta mentre sorseggiava il suo portandolo lentamente alle labbra e scaldando le mani sulla tazza.
    Lo sguardo nuovamente si stava perdendo sulle foto e sui documenti che aveva davanti. Il disturbo che quel caso gli aveva portato lo spaventava e allo stesso tempo lo affascinava. Gli ricordava la guerra ed i suoi orrori. Fu in quel momento che la sua bocca parò prima che il suo cervello elaborasse correttamente quello che aveva fatto, ma ormai era andata. «Cosa ne pensa oggi di tutto questo caso?»
    Si era fermato per prendere respiro. Sapeva esattamente cosa aveva fatto, e ne capiva il perché e continuò «L’ho rivisto talmente tanto che me lo ricordo tutto quasi a memoria, fascicolo per fascicolo» le disse guardando le lavagne e i dossier aperti sulla scrivania «Eppure ho la sensazione che abbiamo perso qualcosa quella notte. Che qualcosa ce lo siamo dimenticati, che non lo abbiamo visto e che eppure sia proprio qui di fronte a noi.»
    Si fermò per darle il tempo di una risposta. Sembrava quasi che quel circolo vizioso di cui parlava prima si fosse aperto, o comunque allargato abbastanza da far entrare qualcosa di nuovo e diverso.
    Le mani erano rimaste strette sulla tazza che nel frattempo si stava raffreddando e le stesse invece mostravano una presa salda sulla ceramica di quell’oggetto tanto delicato.
    Diverse erano l’emozioni del tiratore e non ce n’era una dominante. Se non una leggera sensazione di impotenza di fronte a queste mostruosità.
    Si frenò dal dirle che aveva continuato a seguire l’indagine, a cercare piste ed indizi che portassero a qualcosa. Il vero problema era che non aveva accesso a tante fonti di informazioni e che non c’era un vero e proprio sistema per riconoscere le similarità tra i vari casi in maniera tale da creare correlazioni e mettere assieme più punti di vista.
    Avrebbe accolto con cura e attenzione tutto quello che sarebbe arrivato dall’auror, altri due occhi avrebbero forse dato davvero una prospettiva diversa.


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    Giadì

     
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